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Tintenfasspreis 2022

MICROSTORIE DI OUTDOOR EDUCATION ALLA SCUOLA DELL’INFANZIA – una pratica educativa che collega il passato e il presente della realtà scolastica ticinese



Der Tintenfasspreis 2022 wurde am 25. April 2022 an Antonietta Cammareri anlässlich der Veranstaltung "Draussenschule früher und heute" verliehen. Die Autorin nahm das Kunstwerk (Ana Clerc) zu ihrem Text und das Preisgeld persönlich entgegen. Wir gratulieren herzlich!



Einreichungen für den diesjährigen Tintenfasspreis nimmt die Jury bis zum 31. August 2023 entgegen unter info@schulmuseumbern.ch. Weitere Informationen entnehmen Sie der Website.





Estratto_TesiBachelor_AntoniettaCammareri
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Quadro teorico


1. La storia della scuola all’aperto

Anne-Marie Châtelet sostiene che “l’école de plein air s’inscrit dans une histoire longue et complexe qui mêle la pédagogie, l’action sanitaire et l’architecture” (Châtelet, 2021, p. 26). Nella storia della pedagogia, il concetto dell’educazione all’aperto “è stato il principio su cui si è fondata l’educazione fino dai primissimi tempi” (Fratus, 1914, p. 44). Già i Greci e i Romani fanno dell’allevamento del fisico e del movimento all’aperto i loro ideali educativi; questi verranno ripresi nel 1400 da Vittorino da Feltre in Italia, nella sua Casa Gioiosa, con l’obiettivo di contrastare i sistemi scolastici diffusi nel Medioevo, in cui le scuole venivano confinate nelle chiese e nei monasteri come prigioni caratterizzate dall’autoritarismo e dalle intimidazioni. L’esperienza italiana, seppur con i suoi limiti, pone le basi per il periodo successivo denominato “Naturalismo pedagogico” diffusosi in Europa (Ibidem). In particolare, in Germania nel 1658, Comenio nel suo “Orbis sensualium pictus” descrive il metodo educativo come autopsia, dal greco autòs opis ovvero “guardare con i propri occhi, osservare la realtà e farne esperienza con i propri sensi” (Farné, 2014, a cura di Farné & Agostini, 2014, p. 17). L’esterno viene dunque vissuto, sin dalla scuola materna, come un’aula da cui attingere le diverse esperienze sensoriali da trasferire poi all’interno per elaborarle e farne apprendimento (Ibidem).

Alla fine del 1600 in Inghilterra, il filosofo John Locke ribadisce l’importanza delle esperienze all’aperto per favorire lo sviluppo armonico della personalità, aggiungendo un aspetto che si ripresenterà negli anni, ovvero la necessità di rafforzare il corpo dei fanciulli all’aria aperta (D’Ascenzo, 2018). Inoltre, Locke sostiene che l’obiettivo ultimo dell’educazione deve essere quello di accompagnare i bambini verso la propria autonomia, a partire dalla prima infanzia, e ciò è possibile quando l’ambiente permette esplorazioni libere, intendendo la libertà non in senso assoluto ma dettata dalle possibilità e dai limiti insiti nel contesto stesso (Bortolotti, 2014, a cura di Farné & Agostini).

Nel 1700, Jean-Jacques Rousseau apre la strada a un nuovo spirito naturalistico, in cui l’educazione è spontanea e libera da ogni artifizio (Fratus, 1914). Nel suo celebre capolavoro l’Emilio Rousseau raccomanda, come luogo ideale in cui educare gli allievi, la campagna, lontano dalla città, per entrare in contatto con l’ambiente naturale in modo consapevole in quanto “i nostri primi maestri di filosofia sono i nostri piedi, le nostre mani, i nostri occhi” (D’Ascenzo, 2014, a cura di Farné & Agostini, 2014, p. 45). Inoltre, la natura alimenta la curiosità degli individui, curiosità che non andrebbe soddisfatta attraverso le spiegazioni degli adulti ma ricercata attivamente dal bambino (Ibidem). Ciò non vuol dire rinunciare a educare, in quanto vi deve sempre essere un fine educativo ma “con l’educazione all’aperto, il fanciullo acquisterà il desiderio di imparare, e questo desiderio è il mezzo più sicuro per arrivare all’acquisto di cognizioni” (Fratus, 1914, p. 56).

Rousseau rivoluzionò i principi pedagogici del suo tempo, condannando l’istruzione parolaia acquisita sui libri a favore di un’educazione di pratica utilità acquisita all’aperto (Ibidem).

Dal pensiero di Rousseau vennero ispirati altri nomi noti nel panorama pedagogico come il filosofo svizzero Johann Heinrich Pestalozzi, padre della pedagogia moderna e dell’arte dell’intuizione per mezzo della natura, e il pedagogista tedesco Friedrich Fröbel. Quest’ultimo, in particolare, denominò “Kindergarten” (Giardino dei bambini) il luogo privilegiato di istruzione-educazione in cui i bambini in fascia tre-sei anni hanno la possibilità di entrare a contatto con la natura attraverso l’espressione ludica all’aria aperta e la cura degli spazi esterni (Bortolotti, 2014, a cura di Farné & Agostini). Oltre all’intento formativo, vi era l’esigenza di sviluppare il senso di responsabilità dei bambini, la loro autonomia e la sicurezza in sé stessi, promuovendo anche escursioni nelle fattorie, nei centri abitati e nei boschi vicini all’istituto, “con l’obiettivo di osservare, catalogare, individuare relazioni a partire dalle esperienze dirette” (Ibidem, p. 54).

Il superamento del modello fröbeliano coincide con l’introduzione del “metodo montessoriano” nelle Case dei bambini (D’Ascenzo, 2018). Quest’ultime necessitavano di uno spazio esterno naturale né troppo ristretto, per soddisfare il bisogno di agire del bambino, fondamentale alla sua scoperta, né troppo ampio, per evitare la dispersione sensoriale; inoltre, i materiali a disposizione non dovevano eccedere per evitare inutili stimoli, non approfonditi nella loro conoscenza. Montessori, nel 1909, diffondeva il suo metodo tenendo Corsi di pedagogia scientifica, in cui illustrava la dimensione pedagogica della relazione tra natura e educazione, rendendo centrali attività come l’allevamento degli animali e i lavori agricoli (Ibidem). La pedagogia montessoriana ebbe terreno fertile anche in Ticino, grazie ad una rete di scambi avvenuta con alcuni importanti attori svizzeri come l’ispettrice Teresa Bontempi e la docente Maria Boschetti Alberti, come riportato in Sahlfeld e Vanini (2018). Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento andò a delinearsi l’attivismo pedagogico, in cui l’esperienza diretta nell’ambiente, naturale e non, riveste un ruolo centrale nella formazione dei bambini, andando oltre l’educazione tradizionale del tempo (D’Ascenzo, 2014, a cura di Farné & Agostini).

Di forte rilievo fu inoltre la dimensione medico-educativa nella diffusione della scuola all’aperto; nel corso del Novecento queste due dimensioni si alternano continuamente, prevalendo l’una sull’altra (Châtelet, 2021). In particolare, alla fine dell’Ottocento, nacquero le prime “scuole all’aperto”, considerate scuole speciali per i bambini più gracili e che, vivendo in una condizione di povertà e scarsa igiene, erano maggiormente predisposti alla tubercolosi (D’Ascenzo, 2014, a cura di Farné & Agostini). Quest’ultima era “il male che miete maggiori vittime nei fanciulli nell’età della scuola” (Fratus, 1914, p. 69). La scuola all’aperto viene progettata proprio come mezzo per prevenire questa malattia, in un momento in cui la sua diffusione non era sotto controllo e l’unico rimedio possibile era la cura dell’aria (Châtelet, 2021). A questo scopo vennero istituite in Europa anche le colonie di vacanza al mare, sui monti o nei campi che offrivano però una soluzione temporanea non sufficiente alla lotta contro la malattia (D’Ascenzo, 2018). Queste diedero origine alle Waldschulen (scuole nella foresta) istituite per quei bambini che “non sono abbastanza ammalati per essere ammessi in un ospedale, ma che sono troppo deboli per usufruire dell’insegnamento dato ai fanciulli in buona salute” (Fratus, 1914, p. 75).

La prima esperienza pionieristica di Waldschule fu quella di Charlottenburg, in Germania, nel 1903, descritta da D’Ascenzo (2018). La sua ubicazione immersa nella foresta di pini lontano dalla città garantiva la massima esposizione alla luce solare. Vi era un unico padiglione dedicato alla direzione scolastica e utilizzato come luogo di riparo per le giornate di maltempo. Le lezioni, le attività igieniche (come la ginnastica respiratoria), i momenti di gioco ricreativo e la refezione si svolgevano all’aperto per favorire la guarigione degli allievi. Venivano accolti i bambini tra i 6 e i 14 anni e, a differenza della scuola tradizionale, vi era la coeducazione dei sessi. Inoltre, le classi erano composte da un massimo di 20 alunni, invece dei 40 accolti nelle classi del tempo. Le lezioni erano alternate a lunghi momenti di pausa in cui i bambini potevano dedicarsi all’esperienza diretta nella natura, al giardinaggio e alle osservazioni metereologiche (D’Ascenzo, 2018). I risultati ottenuti da questa nuova forma di scuola furono sorprendenti fin da subito sia a livello medico sanitario sia a livello intellettuale; infatti, Fratus (1914) afferma:


il profitto nello studio era stato superiore a quello dei fanciulli delle scuole normali che avevano dedicato alla scuola un tempo doppio. Questi innegabili risultati dimostrano che la scuola all’aperto risponde a scopi profilattici, curativi e educativi. (p. 78)


Nei primi anni del 900, diversi congressi internazionali di igiene scolastica diffusero l’esperienza tedesca, che divenne il prototipo a cui si ispirarono altre realtà europee, si pensi a Belgio, Francia, Inghilterra, Spagna e Svezia, fino ad arrivare oltreoceano, negli Stati Uniti, Sud America, Australia e Giappone (Châtelet, 2021).

In Svizzera, nel 1910, il medico specialista in cura elioterapica Auguste Rollier fondò un sanatorio per la cura della tubercolosi denominato école au soleil che apportò due innovazioni nel campo della scuola all’aperto. La prima deriva proprio dal nome attribuito al sanatorio, ovvero la metodologia della cura del sole; la seconda è la classe mobile, ovvero la possibilità di spostamento dei bambini, grazie alla presenza di banchi e sedie leggere trasportabili, in luoghi maggiormente esposti al sole e all’aria aperta, approfittando delle condizioni climatiche e topografiche del territorio (D’Ascenzo, 2018). L’esperienza ebbe un grande successo tanto da essere approvata dalla Lega ginevrina contro la tubercolosi che finanziò altre scuole sul modello di Rollier e tanto da diffondersi ampiamente nella vicina Italia (Ibidem).

Negli stessi anni, anche in Italia nacquero le prime scuole all’aperto a scopo medico e curativo, in cui si promuoveva l’utilizzo dell’ambiente esterno durante tutto l’arco dell’anno “nella convinzione che proprio l’immersione prolungata nella natura avrebbe migliorato le condizioni fisiche e psicologiche di salute degli alunni e, insieme, fornito l’istruzione elementare necessaria” (D’Ascenzo, 2014, a cura di Farnè & Agostini, p. 47). Tra le diverse città italiane che hanno istituito la scuola all’aperto va menzionata la città di Padova, con un ruolo pionieristico nella penisola e ispirato all’esperienza di Charlottenburg, di cui riprende i tratti caratteristici a livello metodologico e strutturale (D’Ascenzo, 2018). Anche a Milano, sulla scia delle esperienze finora discusse, si avviò la nascita della scuola all’aperto come “mezzo più facile e più sicuro per far godere i benefici dell’aria e del sole al maggior numero di fanciulli” (Fratus, 1914, p. 86). Il sole era considerato l’unico nemico naturale della tubercolosi (Ibidem). Inoltre, la realtà milanese era caratterizzata da condizioni di povertà delle famiglie e da un incontrollato urbanesimo, ciò rendeva dunque necessario l’ampliamento delle scuole all’aperto (D’Ascenzo, 2018). L’esperienza è quella al vecchio ippodromo “Trotter”, divenuto nel tempo un grande parco nel cuore della città. I bambini gracili trascorrevano lì intere giornate dal mattino al tardo pomeriggio in cui erano impegnati con attività all’esterno, come il giardinaggio e la cura degli animali, oltre che svolgere uscite secondo lo stile dello scoutismo (Ibidem). Vi erano inoltre un museo didattico, spazi laboratoriali, una biblioteca e un teatro, luoghi in cui i bambini erano i protagonisti delle esperienze, secondo il modello dell’attivismo pedagogico che andava diffondendosi e che allontanava dal concetto di scuola tradizionale (Ibidem).

Il pedagogista svizzero Adolphe Ferriére, dopo aver visitato la realtà milanese, ne diffuse il valore anche all’estero. In particolare, al Congresso internazionale per la protezione dell’infanzia, tenutosi a Parigi nel 1927-28, in cui sottolineava il rilievo pedagogico delle scuole all’aperto per tutti (D’Ascenzo, 2018). La svizzera e la Francia in particolare, nel primo dopoguerra, furono le portavoce della diffusione del movimento delle scuole all’aperto data l’esigenza di rendere maggiormente visibili e coordinate le diverse esperienze nate nelle realtà europee ed extraeuropee. Si tenne così, nel 1922, il primo Congresso internazionale delle scuole all’aperto a Parigi, promosso dal teologo svizzero Jean Dupertuis. Per la prima volta venne fatta chiarezza sulle diverse classificazioni di esperienze ascrivibili sotto il termine di scuola all’aperto, eseguendo una distinzione tra “classi aeree” in cui le finestre rimanevano sempre aperte su ogni lato per favorire l’arieggiamento dell’aula; “scuole en plein air” poste lontano dalla città ed esposte al sole e all’aria per ospitare bambini tubercolotici; “preventorium” ossia luogo posto in campagna per i soggetti predisposti alla tubercolosi e bisognosi di cure mediche particolari (Ibidem). Ma l’innovazione radicale portata alla luce al Congresso fu il legame tra l’educazione nuova, attiva e le scuole all’aperto, sottolineando le potenzialità di quest’ultimo metodo educativo che permetteva di uscire dall’immobilità delle aule tradizionali per aprirsi al contatto con la natura per un migliore sviluppo intellettuale; inoltre, venne ribadito il bisogno di estendere la scuola all’aperto per tutti e non solo per i bambini gracili o ammalati o tardivi (D’Ascenzo, 2018).

L’importanza dell’educazione all’aperto per i bambini con bisogni speciali viene espressamente ribadita da Fratus (1914); intanto, per bambini tardivi l’autore intende “gli alunni irrequieti, gli instabili, i ripetenti, una scolaresca insomma avente una fisionomia speciale e strana” (p. 94) per cui all’epoca venivano istituite classi parallele aventi come scopo quello di correggere o punire e caratterizzate da un’istruzione fredda e sedentaria in un ambiente chiuso non diverso dalla classe tradizionale (Ibidem). Nelle scuole all’aperto questi fanciulli, ammessi in numero ristretto, trovano lezioni brevi e incentrate sui lavori manuali, poche parole che limitano e più azione a contatto con la natura e con le sue bellezze, la calma, l’amore e la serenità di cui hanno bisogno per non sentirsi esclusi e per evitare che si incrementi in loro uno stato di ostilità e ribellione contro una scuola che non tiene conto dei loro bisogni e dei loro ritmi di apprendimento (Ibidem).

Anche nelle pagine di Fratus troviamo sottolineata la necessità di estendere la scuola all’aperto per tutti in quanto bisogno di vita infantile;


I bambini del primo anno di scuola sono quelli che più risentono i danni dell’ambiente chiuso, dell’immobilità forzata, della vita contraria a tutti i loro istinti. La scuola all’aperto deve incominciare quindi dal primo anno di scuola e continuare per tutto il periodo dell’obbligo scolastico (1914, p. 108).


Tornando al panorama storico-educativo, i primi Congressi Internazionali, grazie alla presenza di Ferrieré e Dupertuis, furono emblematici per ampliare lo sguardo verso la scuola all’aperto e per favorire il rinnovamento mondiale delle scuole nuove e attive (D’Ascenzo, 2018).

La scuola all’aperto fu tanto promossa dai sistemi democratici quanto fascisti, dai primi prevalentemente per il suo valore sociale mentre dai secondi per il suo valore della salute fisica (Châtelet, 2021). Negli anni Trenta e Quaranta, infatti, nei regimi totalitari determinati da un eccessivo sentimento nazionalistico di fortificazione della razza, le scuole all’aperto venivano considerate come istituzioni atte a promuovere corpi sani e vigorosi per lo Stato ma con un’organizzazione sempre più rigida e controllata che rinnegava pericolosamente la forza democratica dell’educazione attiva (D’Ascenzo, 2018).

Nel secondo dopoguerra riprese il dibattito sul significato delle scuole all’aperto in relazione all’educazione nuova e attiva promossa al loro interno, con l’intento di diffondere nuovamente tale metodologia per tutti, grazie anche alla promozione, in Italia, di corsi di formazione e aggiornamento per gli insegnanti (Ibidem).

Verso la fine degli anni Sessanta, con la progressiva sconfitta della tubercolosi e il conseguente miglioramento dello stato di salute dei bambini, le scuole all’aperto videro diminuire la loro popolazione scolastica, fino a giungere negli anni Settanta in cui l’ambiente esterno iniziò ad essere utilizzato per l’educazione ambientale e sempre meno valorizzato come risorsa didattica intenzionale (D’Ascenzo, 2018). Mentre, nell’ultimo decennio, va diffondendosi un nuovo filone educativo di scuola in natura, principalmente orientato ai nidi d’infanzia ma non solo, che cerca faticosamente di ritrovare una scuola maggiormente distesa nei tempi, più umana e genuina cioè la scuola all’aperto per tutti (D’Ascenzo, 2018).

Per quanto riguarda l’aspetto architettonico, non è obiettivo di questa ricerca approfondire tale tematica, ma occorre sottolineare che ci fu un’evoluzione anche in questo campo. Infatti, se all’inizio della loro nascita, le scuole all’aperto venivano allestite rapidamente, con materiali di fortuna o in edifici già esistenti, negli anni, crescendo l’interesse per questo metodo educativo, si svilupparono soluzioni tecniche innovative. Ne è un esempio la prima realtà nata a Birmingham nel 1911, dove venne progettata la prima “aula all’aperto” per la stagione invernale. Ogni classe, circondata da due ettari di terreno, era ubicata in un padiglione di cui solo il lato nord era un muro, mentre gli altri lati erano costituiti da porte e vetri a scomparsa (Châtelet, 2021).


2. Tracce di educazione all’aperto nella scuola ticinese

Attraverso la consultazione di alcune fonti storiche è possibile delineare l’attenzione posta all’educazione all’aperto nel nostro Cantone dalla fine dell’Ottocento fino ai giorni nostri, soffermandosi su periodi storici particolarmente significativi come gli anni dell’influenza spagnola e gli anni dell’attivismo pedagogico.

Il Programma didattico per gli asili infantili della Repubblica e Cantone del Ticino del 1897 ha tra i suoi principi fondamentali il concetto secondo cui occorre “togliere assolutamente all’asilo, la fisionomia o ciò che è peggio, la realtà non pure di un reclusorio infantile, ma quella altresì di una scuola, sia pure elementarissima” (Programma didattico per gli asili infantili, 1897, p. 3) ispirandosi alla pedagogia scientifica emergente. Tra le pagine del Programma vengono citati illustri pedagogisti, visti precedentemente, come Rousseau e Pestalozzi, per far leva sulla convinzione che non vi sia bisogno di banchi scolastici, penne, libri e orari fissi e standardizzati per l’apprendimento dei bambini ma


il fiume, i torrenti, i campi, i monti, i paesi ecc, ecc, che il fanciullo vede, diventano sul labbro della madre altrettante lezioni di geografia: il sindaco, l'ispettore, il parroco, il gendarme, ecc, ecc. si convertono in piccole lezioni di civica; per l'aritmetica tutto si presta; il bambino conta, colla madre, i fratelli, le sorelle, gli animali, le piante, i regali (Ibidem, p. 6).


Il ruolo della docente sta nel cogliere e approfittare delle occasioni che si presentano naturalmente o nel crearle da sé ricercando le risorse nel suo istinto materno amorevole e curante del cuore e della mente dei suoi bambini. Inoltre, viene ribadita l’importanza dello sviluppo e della consapevolezza corporea nei bambini tra i tre e i sei anni, rifacendosi alle dottrine della psicologia infantile, “l’anima prima di estrinsecar le sue potenze ha bisogno di un corpo sano, forte e dotato di sensi buoni” (Programma Didattico, 1897, pp. 10-11). Per questo è necessario che l’asilo sia un luogo esposto alla luce solare circondato da un giardino ricco di vegetazione per ricercare l’ombra e da un cortile coperto per trovare riparo nelle giornate piovose. Il bisogno dei fanciulli è di giocare, correre e sentirsi liberi nei Giardini d’infanzia piuttosto che sentirsi repressi in una sorta di reclusione forzata come avviene nelle scuole tradizionali del tempo. Oltre al gioco viene ribadita anche l’importanza del lavoro manuale “si giuochi lavorando o si lavori giuocando” (Ibidem, p. 12) ed in particolare dei lavori agricoli, desiderati dai bambini per il loro naturale istinto di maneggiare la terra, sporcarsi e prendersi cura delle piante. Tanto più è desiderato dai bambini tanto più sarà educativo e formativo. Infatti, secondo Pestalozzi, i lavori manuali e agricoli sono fortemente collegati allo sviluppo intelletuale in quanto stimolano la naturale curiosità degli allievi che è l’unico motore per un efficace apprendimento.


Idea dunque cardinale sia questa: che tutto quanto v'ha nella natura e si afferma spontaneamente, non vuole essere compresso, ma deve essere educato, volgendolo al bello, al vero, all'utile e specialmente al bene. (Ibidem, 1897, p. 14)


Le attività all’aria aperta presentano in questo Programma una notevole interdisciplinarità con alcuni ambiti di insegnamento, come ad esempio il canto, l’italiano, la ginnastica e il disegno:


Metteteli in un cortile con un bastoncino in mano, e vi disegneranno sul terreno quelle immagini che brulicano nella loro fantasia; collocate sotto le loro mani un mucchio di sabbia e vedrete come essi spontaneamente vi tracceranno strade, fiumi, prati e vi creeranno colline, monti, e coll'aiuto di pietruzze o di legno edificheranno case, ponti, mulini ecc. (p. 23)


Viene inoltre sottolineata l’importanza del moto e delle passeggiate per imparare a conoscere l’ambiente esterno e per nominare ciò che li circonda (strade, fiumi, monti, ecc.).

Per concludere, viene riportata una massima di Froebel (le massime venivano utilizzate per decorare le aule scolastiche) citata alla fine del Programma: “Muoversi all’aperto, vivere in mezzo alla natura, ecco quanto importa per l’infanzia; nulla contribuisce meglio a procurarne lo sviluppo, ad educarla, a nobilitarla” (Programma didattico per gli asili, 1897, p. 49).

Nel 1919, anno della pandemia da influenza spagnola che colpì fortemente la Svizzera causando migliaia di giovani vittime sane, nella rivista L’educatore della Svizzera Italiana (28 febbraio 1919) si inizia a parlare di Colonie Climatiche estive, citando per lo più quelle createsi a Lugano (la più famosa è quella di Breno) e a Locarno, rimarcando la necessità che gli Stati civili incrementino le istituzioni per le cure montane e marine dei fanciulli deboli. Nello stesso anno nei nuovi Programmi delle Scuole Normali, in riferimento alla materia ginnastica vengono menzionate attività come ginnastica al sole a torso nudo, ginnastica respiratoria e bagni di aria e di sole (Ibidem, p. 299).

Nel 1920 nella stessa rivista viene posto l’accento sull’importanza di incrementare le scuole rurali e, in particolare, di avere maestri che abbiano il desiderio di uscire dalla scuola spoglia, fredda e buia per sostituire questa con una scuola in cui il docente


corre sulla terra in fermento seguito dai suoi piccoli figli.[…]. Comincia la lezione nella grande aula della natura ricca di quadri, ricca di luce: la lezione spontanea che vien su dallo spirito inebriato di serenità, la lezione che non ha orario, non ha diario… (p. 42)


La Legge Scolastica del 1914 al suo Art. 68 ordina: “Il Comune deve fornire, ove ciò sia possibile, un campicello per l’avviamento ai lavori agricoli” con l’intento di educare la volontà, sviluppare l’organismo bisognoso di stare all’aria aperta e respirare aria pulita. Da qui l’esigenza di accrescere l’interesse per i lavori agricoli già dalla prima infanzia, rendendo i campi e gli orti aule all’aperto in cui prediligire di fare lezione (L’educatore della Svizzera Italiana, 1920).

La medesima necessità viene espressa nello stesso anno anche in un articolo su Il Risveglio per educare i bambini moralmente e fisicamente attraverso la coltivazione di un giardinetto negli Asili d’infanzia. “Il bambino messo a contatto colla natura, diventa osservatore; l’animo suo s’ingentilisce; i suoi sentimenti si elevano, i sensi suoi trovano mezzi per educarsi” (Bazzara, 1920, p. 68). Il bambino impara a prendersi cura degli altri esseri viventi, diventa rispettoso e paziente nell’attesa che il suo lavoro dia i suoi frutti. L’autrice ribadisce l’importanza di estendere tale sistema educativo a tutte le case infantili del Cantone (Ibidem).

A maggio dello stesso anno, sull’Educatore della Svizzera Italiana viene pubblicato il riassunto dei giudizi dei Bollettini dipartimentali sulle lezioni all’aperto. Con una nota innovativa, viene dichiarato che l’insegnamento all’aperto è vantaggioso non solo per gli allievi ma anche per i docenti e per le famiglie. I maestri sostengono che le conoscenze libresche, superficiali e astratte, possono essere sostuite da conoscenze reali, vive e dirette agli occhi dei bambini, specialmente per quel che riguarda l’insegnamento delle scienze naturali. Ciò conduce ad amare la propria terra natia; le scoperte fatte vengono poi riportate a casa, in famiglia dove nasce un sentimento di curiosità anche nei genitori che si sentiranno maggiormente coinvolti nell’approfondire tali conoscenze (L’educatore della Svizzera Italiana, 1920). Un ulteriore aspetto innovativo emerso in questo articolo è la richiesta alle scuole 9 rurali di redigere in forma sperimentale un programma didattico di educazione all’aperto, i cui migliori saranno premiati in denaro, con l’obiettivo di diffondere un metodo di insegnamento degno di una vera scuola rurale che ancora non esiste (Ibidem).

Nell’anno 1923, sulla medesima rivista, l’articolo intitolato Per le lezioni all’aperto collega l’insegnamento all’aperto alla scuola attiva, dove il bambino è protagonista delle sue scoperte in diretto contatto con la realtà che lo circonda, “sviluppando e fortificando così in lui l’abito dell’osservazione, la fonte prima di ogni sapere” (L’educatore della Svizzera Italiana, 1923, p. 20). L’insegnamento pratico e attivo alimenta il desiderio naturale del sapere dei bambini, rendendoli autodidatti curiosi e attenti all’ambiente esterno. L’autore coglie l’occasione per ribadire l’urgenza dell’obbligatorietà di almeno una lezione settimanale all’aperto e invita i docenti del Cantone ad inviare i consuntivi dei programmi delle lezioni all’aperto messi in atto durante l’anno (Ibidem). Nello stesso anno, nel mese di novembre, un intero capitolo viene dedicato all’assistenza e alla cura dei bambini gracili, riportando le diverse istituzioni create appositamente a tal fine: gli ospizi svizzeri, le colonie temporanee e permanenti, le scuole all’aperto (in particolare viene richiamata la scuola Trotter di Milano) e la scuola al sole. Grazie a questo inserto, veniamo a conoscenza che la Svizzera detiene il primato in questo ambito tanto da meritare di ospitare la sede dell’Ufficio Internazionale delle Scuole all’aperto (Ibidem).

Nel Programma delle Case dei Bambini del 1928, redatto dall’Ispettrice Cantonale Teresina Bontempi e dalla Direttrice dell’Asilo modello di Bellinzona Maria Valli, tra i fattori che permettono al bambino uno sviluppo sano verso la vita e la società vi è l’educazione fisica, intesa come educazione e cura del corpo, a differenza della concezione attuale che la denota come educazione sportiva. All’interno della descrizione di tale ambito disciplinare si ritrovano riferimenti espliciti all’educazione all’aperto, ovvero “libertà di moto, d’attività, d’investigazione, secondo il suo naturale bisogno;” e ancora “vita all’aperto, sole, riposo” (Programma delle Case dei Bambini, 1928, p. 5). Un ulteriore fattore è l’educazione intellettuale che ha come punto di partenza nell’infanzia l’attività sensoriale che necessita delle giuste condizioni affinché possa manifestarsi, alimentarsi e fruttare. Il ruolo della docente è dunque quello di creare queste condizioni e vigilare durante l’azione attiva e libera dei bambini. Tre sono le condizioni elencate: “il contatto e l’osservazione diretta della natura, la partecipazione attiva alla vita pratica, il materiale di sviluppo creato dalla Montessori” (Ibidem, p. 15). L’obiettivo ultimo non è quello di insegnare ma di mettere il bambino nella posizione di imparare continuamente, autonomamente e pazientemente osservando la vita animale e vegetale che lo circonda (Ibidem).

È da preferire, quando possibile, svolgere all’esterno i momenti di disegno, lavoro manuale e ricreazione. Quest’ultima, in particolare, è fondamentale per permettere alla maestra di osservare i propri allievi nel contatto con la natura e instillare in loro un sentimento di rispetto e ammirazione verso le ricchezze naturali. Per fare ciò è però necessario che la docente, prima di tutto, sia preparata nozionisticamente e amante della natura per dirigere al meglio i lavori di giardinaggio e le scoperte effettuate dai bambini.


E se talvolta l’entusiasmo per una scoperta […] continuasse, non formiamoci degli inutili scrupoli in omaggio all’orario. Lasciamo che i bambini ne godano, che ne abbiano ad assimilare quanto è possibile, che ne imparino, vivendola, tutta la verità, sempre ricordando che la natura è la migliore e più grande maestra (Programma delle Case dei Bambini, 1928, p. 27).


Anche il momento del riposo (che tradizionalmente avviene sulla seggiola piegati in avanti con la testa appoggiata sul tavolo, posizione anti-igienica e malsana) quando è possibile, in estate in special modo e per i bambini più gracili, può avvenire all’aperto, servendosi di stuoie facilmente trasportabili (Ibidem).


Nel 1930, su Il Risveglio, si parla di “indiscussi vantaggi” delle lezioni all’aperto, quando esse siano ben preparate su un oggetto di studio che sia chiaro agli allievi per alimentare l’attenzione su di esso, in quanto “più vere, più concrete, più precise, favoriscono la preparazione del fanciullo alla vita pratica obbligandolo ad essere artefice del proprio sviluppo” (1930, p. 138).

Nel Programma delle Case dei Bambini del 1944, nella prima parte introduttiva in cui vengono riportati i principi della scuola, non si fa direttamente accenno alle lezioni all’aperto ma viene sottolineato un aspetto cardine dell’educazione all’aperto ossia l’importanza di non creare programmi rigidi prestabiliti dall’adulto ma avere un orientamento generale che porti gli alunni a “vivere l’interezza gioiosa, attiva, concreta, della vita infantile è la sola ragionevole preparazione fisica, intelletuale e morale alla vita del fanciullo e dell’uomo” (La Casa dei Bambini, 1944, p. 10).

Sulla scia di quanto riportato nel Programma del 1928, si fa rifermento all’importanza dell’ambiente in cui è inserito il bambino, che deve essere caratterizzato da un giardino, orto e prato esterni che avvicinano alla natura “educatrice per eccellenza”, da attrezzi per i lavori di giardinaggio, da una maestra attiva, che curi la vita all’aperto per soddisfare il bisogno di movimento dei bambini, la libertà di moto e le esercitazioni della vita pratica, denominate giochi di imitazione. A completare la libertà di moto vi sono l’aria, il sole e lo spazio; occorre quindi preferire le attività all’aperto quando è possibile, per abituare i bambini alle diverse temperature e quindi irrobustire il loro corpo, rendendolo forte e sano e per alimentare la loro curiosità nell’osservazione diretta della natura che è in continua trasformazione (Ibidem).

Attraverso l’esplorazione ambientale si cura anche l’educazione sociale del bambino, infatti accresce in lui un sentimento di profondo rispetto verso gli altri, “la conoscenza delle cose e delle creature fa si che per il bambino, come per l’uomo normale, sia legge, non il distruggere, ma il costruire, non l’odio, ma l’amore” (La Casa dei Bambini, 1944, p. 32).

Dopo la seconda guerra mondiale, anche in Ticino si assiste ad un declino della stagione dell’attivismo pedagogico, dell’influenza diretta di Maria Montessori e del movimento delle scuole all’aperto.

Nei Programmi per le scuole obbligatorie del Cantone Ticino del 1959, tra i criteri direttivi della didattica, si articola la necessità di prevedere lezioni all’aperto, escursioni, passeggiate e visite per quel che riguarda l’insegnamento della storia, della geografia e delle scienze naturali alla scuola elementare, discipline in cui è centrale il rapporto tra tempo e luogo in cui il bambino è inserito. Nel Regolamento interno per le case dei bambini del 1960 non si rileva invece alcuna indicazione circa la metodologia e i principi pedagogici che guidano l’operato dei docenti.

Nel 2000 vengono approvati i primi Orientamenti programmatici per la scuola dell’infanzia, documento innovativo e che utilizza una nuova nomenclatura (la nostra attuale) per indicare l’istituzione scolastica rivolta all’infanzia. Istituzione che non è ancora resa obbligatoria ma che acquista una sua maggiore specificità per quanto riguarda le finalità educative del processo di insegnamento-apprendimento. All’interno di queste linee guida non vi è un chiaro riferimento alla scuola all’aperto e al contatto con la natura. Indirettamente, si può cogliere una relazione con l’ambiente territoriale circostante nella presentazione del campo di attività legato all’educazione scientifica.


Risvegliare nel bambino la curiosità scientifica può portarlo a vivere e capire il quotidiano come un’avventura, dove piante, animali, oggetti inanimati, fenomeni naturali sono fonti di esplorazione e scoperte che toccano non solo la conoscenza, ma anche gli aspetti affettivi della personalità (Orientamenti Programmatici, 2000, p. 20).


Giungendo ai giorni nostri, l’attuale Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese (Divisione della scuola, 2015) sancisce l’obbligatorietà di almeno due anni di scuola dell’infanzia e la finalità ultima del sistema scolastico è favorire negli allievi lo sviluppo e l’acquisizione di competenze fondamentali. Quest’ultime si sviluppano all’interno di diversi ambiti disciplinari. È bene sottolineare che all’interno del testo in questione non si parla direttamente di scuola all’aperto ma in modo trasversale e indiretto si possono cogliere accenni all’educazione all’aperto; nella dimensione ambiente ad esempio, nella descrizione dell’ambito, si rileva come finalità, innovativa e attuale, lo “sviluppo di una coscienza ecologica sensibile alla presenza della natura, ai problemi ambientali e all’utilizzo sostenibile delle risorse limitate di cui disponiamo” (PSSO, 2015, p. 171). Per quanto riguarda l’area motricità ad esempio (dove per motricità si intende non la sola educazione fisica incentrata sulle atttvità sportive ma la condotta motoria, che unisce il movimento motorio con lo sviluppo globale della personalità del bambino), vi è la competenza motoria legata all’incertezza data dall’ambiente fisico, che prevede lo svolgimento delle attività all’esterno (bosco, parco, giardino) per favorire il processo dell’anticipazione nell’agire da parte del bambino (Ibidem).



Bibliografia


Libri

Bortolotti, A. (2014). Metodi “fuori soglia”, in Farné & Agostini (a cura di), Outdoor Education. L’educazione si-cura all’aperto. Spaggiari edizioni.

D’Ascenzo, M. (2018). Per una storia delle scuole all’aperto in Italia. Edizioni ETS.

D’Ascenzo, M. (2014). Quando l’Outdoor education non si chiamava così, in Farné & Agostini (a cura di), Outdoor Education. L’educazione si-cura all’aperto. Spaggiari edizioni.

DECS (2015). Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese. Bellinzona: Divisione della scuola.

Farné, R. (2014). Per non morire di sicurezza: l’intenzionalità pedagogica del rischio in educazione, in Farné & Agostini (a cura di), Outdoor Education. L’educazione si-cura all’aperto. Spaggiari edizioni.

Farné, R., Agostini, F. (2014). Outdoor Education. L’educazione si-cura all’aperto. Spaggiari edizioni.

Fratus, F. (1914). La scuola all’aperto e relazione di un esperimento con fanciulli normali. Editori Firenze.

Martel, C., Wagnon, S. (2022). L’école dans et avec la nature. La révolution pédagogique du XXI° siècle. ESF Sciences humaines.

Mei, S., Ognisanti, M. (2020). Dal rischio all’opportunità. Esperienze di outdoor education nei servizi per l’infanzia e nella scuola primaria. Edizioni junior.


Fonti storiche

Adolphe Ferrière in “Maria Boschetti Alberti: un’esperienza ticinese di “Scuola serena”, citato in Caratti (1975), Rivista Scuola ticinese, 75, p. 16.

Bazzara, B., (1920). La coltivazione di un giardinetto negli Asili d’infanzia. Il risveglio, pp. 68-69.

Boschetti Alberti, M., (1920). Il metodo Montessori nelle nostre scuole. Il Risveglio, p. 81. Degiorgi, M.C., (1930). Lezioni all’aperto. Il risveglio, pp. 137-141.

L’Educatore della Svizzera italiana (1919). Per i nuovi programmi delle scuole normali, fasc. 4, 19-20, Lugano, p. 299.

L’Educatore della Svizzera italiana (1920), fasc. 3-4, p. 42, fasc. 6, fasc. 9-10.

L’Educatore della Svizzera italiana (1923), fasc. 3-4, p. 20, fasc. 21-22.

Rensi – Perucchi, L., (1915). Una Scuola all’aperto. Rivista Il Patronato Scolastico, Anno I, n.8, Verona, p. 4.

Articoli in rivista

Châtelet, A.M., (2021). Petite historie de l’école de plein air. Cahiers Pedagogiques, 570, pp. 26-27.

Ciabotti, F., Mussini, I., (2021). Sguardi ecologici. A crescere si comincia da…Bambini, 6, p. 25.

Connac, S., (2021). Les limites de l’école dehors. Cahiers Pedagogiques, 570, p. 34.

Partoune, C., (2021). Reprendre pied. Cahiers Pedagogiques, 570, p. 23.

Ribeaud, A., (2021). “Un jour, un élève m’a montré un trèfle”. Cahiers Pedagogiques, 570, pp. 12-13.

Sahlfeld, W., Vanini, A. (2018). La rete di Maria Montessori in Svizzera. Annali di storia dell’educazione, 25.

Seveso, G., (2020). Metodi di ricerca storico-educativa e formazione dei docenti. Quaderno didattico, Formare e formarsi con la storia dell’educazione, p. 11, Locarno.

Wauquiez, S., (2021). On ne fait pas cours dehors comme dedans! Cahiers Pedagogiques, 570, pp. 34-35.


Programmi scolastici

Programma didattico per gli asili infantili della Repubblica e Cantone del Ticino, 1897, Bellinzona.

Valli, M., Bontempi, T., (1928). Programma delle Case dei bambini, Bellinzona.

La Casa dei bambini, 1944.

Programmi per le scuole obbligatorie del Cantone Ticino, 1959, Consiglio di Stato della Repubblica e Cantone del Ticino.

Regolamento interno per le Case dei bambini, 1960.

Orientamenti programmatici per la scuola dell’infanzia, 2000, Divisione della scuola - Ufficio dell’educazione prescolastica.



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